giovedì, Dicembre 12LEGA DEL CANE - SEZIONE DI CARBONIA
Shadow

I gatti dello zar (e di Lenin)

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Sono una sessantina e vivono nei sotterranei dell’Ermitage a San Pietroburgo. Sono i discendenti di un’antica stirpe, passata indenne attraverso la rivoluzione del 1917 e il regime comunista

Attenti ai gatti. Il cartello, con tanto di silhouette felina, sta nei cortili secondari del Museo Hermitage, a San Pietroburgo. In quel pantheon della cultura, ci misi piede la prima volta nel 1986, con l’incolore Andrej Andreevič Gromyko al potere e la ventata riformista di Michail Gorbačev non ancora all’orizzonte.

La città allora si chiamava Leningrado, per strada passava giusto qualche Lada malconcia e a me, ragazzina, veniva da fare la riverenza attraversando i saloni che erano stati la dimora degli zar. La guida, intanto, ci magnificava la potenza del Soviet e nessuno poteva immaginare la sterzata capitalista che avrebbe abbattuto l’U.R.S.S. di lì a poco.

Di certo io non pensavo che all’Hermitage sarei tornata 30 anni dopo, in cerca di gatti.
Se siete di quelli che hanno fifa/fastidio dei gatti, se vi innervosiscono i video che invadono i social di teneri micini, se pensate che i cani sono i migliori amici dell’uomo, questa storia fa per voi, perché i pelosi in questione sono dei duri, soffiano per un nulla e ci considerano come una seccatura. Eppure la gente si mette in coda una volta all’anno, per provare a vederli.

Nei sotterranei dell’Hermitage vive una colonia di gatti e nessuno si sogna di cacciarli via. Al momento sono circa una settantina, scorrazzano nei lunghi corridoi che fanno tanto passaggio segreto, si accoccolano sui tubi, ronfano vicino alle caldaie e tengono bene a bada i topi. La signora Tatiana Danilova, responsabile dei servizi di sicurezza del museo, è a capo del team che si occupa tutti i giorni di dare loro da mangiare, tenere in ordine il rifugio e verificarne lo stato di salute, oltre alle visite regolari di una veterinaria. Fin qui, niente di strano: sostituire la moderna derattizzazione con un piccolo esercito di mici è una soluzione di buon senso. Il fatto è che tutti, in città, li tengono in massima considerazione. Tanto da convincere i vertici dell’Hermitage a creare un vero e proprio Cat Day, una giornata all’anno in cui il pubblico s’infila sotto le stanze che accolgono i Velásquez, Caravaggio o Matisse e in cui i felini sono le star incontrastate.

Come le star, decidono loro se concedersi o meno a una foto, dei più timidi si intravvede magari un orecchio o la coda, gli altri controllano il traffico dalle cucce sopraelevate, create dai loro custodi, con l’artiglio pronto a graffiare chi, come me, osa avvicinarsi senza regolare invito.

«I gatti all’Hermitage ci sono praticamente da sempre», spiega Maria Haltunen, braccio destro del direttore Michail Piotrovsky, «anche se su piani differenti». I primi miagolii risalgono all’inizio del XVIII secolo, quando Pietro il Grande (fondatore di San Pietroburgo, nel 1703) portò con sé un felino di ritorno da un viaggio in Olanda. Sua figlia, l’imperatrice Elisabetta fece di più, promulgando un editto in cui ordinava di mandare a corte i migliori micioni per la caccia ai topi di Kazan, in Tatarstan. «Chiunque abbia in casa un esemplare del genere, si renda noto così da organizzare al più presto la spedizione dell’animale alla cancelleria provinciale», recitava il decreto, sancendo lo status dei gatti come guardie dei quadri raccolti nelle gallerie del palazzo, voluto proprio dalla zarina come dimora regale.

«In realtà, quei gatti erano tutti maschi castrati, perciò senza discendenza», racconta Haltunen, «da lì in poi, però, si prese l’abitudine di regalare un micio a tutti i bambini della famiglia imperiale, non appena raggiungevano l’età per prendersene cura. Gli zar li amavano molto, anche se, con lo scoppiare della Rivoluzione d’Ottobre, nel 1917 si trovarono costretti a fare una scelta». Con l’abdicazione di Nicola II e la conseguente detenzione, la famiglia Romanov dovette decidere se farsi accompagnare dai gatti o dagli altrettanto regali cani.

«Optarono per i cani, cui cui condivisero la morte. Soltanto uno si salvò, finendo in Inghilterra e tra i cadaveri della fucilazione di Ekaterinburg furono trovati anche i corpi dei cagnolini di Anastasija e di Tat’jana». Ai mici imperiali, andò meglio. Alcuni si mescolarono ai più prosaici felini delle cantine, altri furono presi da anime buone, che si occuparono di loro per poi riportarli all’Hermitage una volta calmata la situazione.

Lenin non aveva niente da obiettare sulla loro presenza e solo la Seconda Guerra Mondiale li mise di nuovo in pericolo. «L’assedio dei tedeschi, durato dal settembre del 1941 al gennaio del 1944, aveva quasi piegato la città e falciato i gatti», aggiunge Maria. Leningrado era invasa dai topi ed ecco che, di nuovo, partirono dei treni con un bel carico di fusa. «Arrivarono due convogli, uno dalla Siberia e l’altro dalla Russia Centrale. I proprietari di gatti avevano deciso di donarli a Leningrado, in segno di solidarietà». Dopo di che, non è passato giorno senza almeno un micio all’Hermitage.

Oggi, naturalmente, i pelosi non accedono alle sale del museo, ma da un po’ di tempo a questa parte le loro rappresentazioni sì. «I gatti sono diventati una parte molto importante della vita dell’Hermitage e una delle sue leggende più significative», spiega il direttore Piotrovsky. Una quindicina di anni fa, i dipendenti avevano organizzato una piccola mostra interna per rendere omaggio ai cari Romeo del sottosuolo con delle foto.

«Doveva essere una piccola festicciola tra di noi, solo che, non si sa come, la voce è arrivata all’esterno. La gente ha iniziato a chiederci di potere partecipare», ricorda ancora divertita Maria. «Eravamo tutti stupefatti, non ci aspettavamo tanta curiosità nei confronti dei nostri gatti da parte della città. È stato l’affetto delle persone a convincerci a organizzare il Cat Day». In un giorno di primavera la corte principale del Palazzo d’Inverno diventa teatro per la consegna di un premio di pittura molto particolare. Gli alunni di tutte le scuole di San Pietroburgo sono invitati a trasformare in un dipinto o in un disegno la loro visione dei gatti dell’Hermitage. I più meritevoli vengono, poi, esposti per due settimane nell’area del grande scalone centrale del museo, con la dicitura utilizzata per tutte le opere presenti all’Hermitage e con cui verranno riconsegnati, alla fine dell’allestimento. Mentre tutti gli altri selezionati vengono appesi proprio nei corridoi dove vivono i gatti.

Nonostante l’illuminazione scarsa, il soffitto basso, i mille tubi su cui si rischia di andare a sbattere e l’odore acre, adulti e bambini si mettono in coda e aspettano il loro turno, nella speranza di un incontro ravvicinato con almeno un micio.

All’ingresso ci scruta una austera “cat-guard”, mentre le nostre guide ci fanno camminare adagio. Di musetti baffuti, nemmeno l’ombra finché da dietro una colonna spunta un gatto smilzo (i miei, in confronto, sono balene). «Eccolo», ci fa cenno con dolcezza una di loro e tutti abbassano subito la voce. La creaturina ci guarda un po’ scocciata, poi evidentemente decide che siamo abbastanza deferenti per concederci una foto a figura intera. Rallenta il passo, si volta a guardare il fotografo: «È la tua chance, Baldelli, ora o mai più», sembra dirgli. Baldelli fa click e il micio sparisce.

«Appuntamento all’anno prossimo, umani».


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